I racconti della kokeshi blu

Oggetti traballanti (Albergo di provincia con luce al tramonto)

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I racconti della kokeshi blu

Erano bloccati lì, in quell’albergo anonimo. Il ragazzo della reception che sognava di diventare scrittore, l’uomo maturo che invece non sognava più e aspettava solo di andare a cena, la donna anziana che aveva velleità troppo alte per il suo vestito demodé, la giovane che sfogliava distrattamente una rivista e che aspettava di poter agire, fingendo invece di essere morbidamente indifferente a tutto, anche allo sguardo vagamente interessato dell’uomo dai capelli grigi che si poggiava sulle sue gambe accavallate, chiuse da un tubino alle ginocchia.

La grande tempesta solare li aveva costretti, tutti, a non muoversi, a rinviare partenze già prestabilite, affari più o meno già decisi. Così, lasciate le camere per la colazione, si incontravano tutte le  mattine nella hall, senza neanche salutarsi, senza neanche guardarsi. E il copione si ripeteva al tramonto. Ognuno preso dalla sua storia: chi alla ricerca di un incipit, chi del proprio compimento.

Era il mese di settembre. L’aria autunnale si era fatta sentire prima, quell’anno, creando uno strano clima rarefatto. Sospeso. Ma forse è sempre settembre in un albergo anonimo della provincia americana, dove non succede mai niente e la monotonia di giorni sempre uguali è rotta solo dal rumore di qualche furgone della Coca-Cola, la bevanda nazionale del Grande Paese dei cowboy malinconici; metafora perfetta di un tempo che vorrebbe cambiare e che invece resta immutato, sempre uguale a sé stesso.

Il ragazzo della reception annotava sul suo taccuino questi pensieri vagamente filosofici, sognando di diventare scrittore. Osservava gli ospiti e cercava di ricavarne i caratteri scrutandoli di sottecchi. Voleva evadere. E invece, si guardava allo specchio e gli sembrava di essere già morto da tempo, senza aver mai davvero vissuto. Peggio. Gli sembrava di essere una natura morta, solo un orpello in più in quel maledetto, noioso, albergo. Ma che ci faceva ancora là?

I soldi, una famiglia da aiutare, le piccole cose della quotidianità capaci di provocare le più grandi tragedie. Sbirciò il registro: nomi che, probabilmente, nessuno avrebbe mai controllato.Tranne lui.

Le camere, invece…beh, con le camere, lui lo sapeva, la faccenda era ben diversa. Era convinto che le camere conservassero sempre qualcosa dei visitatori. Palpiti di vita che si sovrapponevano in una strana melodia. E la luce di settembre, di quel settembre, così particolare, donava un fascino in più alle stanze. Si avvertiva, in lontananza, l’arrivo di una nuova stagione e al contempo, qualcosa nell’aria continuava a ricordare che un’altra estate sarebbe tornata. Bastava solo avere un po’ di pazienza.

Edward, invece, il maturo signore, aveva l’aveva terminata, soprattutto adesso che doveva restare lì, bloccato, fermo vicino alla moglie che detestava, avendo perduto l’oblio che gli dava la possibilità di distrarre il suo essere viaggiando continuamente da un posto all’altro del mondo, dopo aver provato gli orrori della guerra in Europa e quello più grave di un matrimonio che era l’anticamera dell’inferno.

La moglie… non perdeva il vizio di vestire in modo ridicolo. Eppure, riusciva ancora ad attrarre uomini, persino più giovani di lei e questo gli dava ribrezzo ed invidia.

Il ragazzo della reception trascriveva gli appunti sul quaderno e sapeva che quella coppia così distinta, espressione di due esseri che non potevano essere più distanti, era destinata a morire. Lo sentiva, lo percepiva nell’aria.

Trascriveva in fretta le sue impressioni, l’impiegato che sognava di diventare uno scrittore e di conoscere Vivien Leigh. La sua bella. Nei sogni tornava a Tara non una ma cento volte per salvarla.

“Forse c’era troppa tristezza nell’aria, ecco perché sogno di continuo!”, pensava tra un rigo e l’altro! La guerra in Europa non era ancora finita e  poi c’era questa maledetta  tempesta…

Tutto così irreale da apparire fatalmente lontano. Hitler, Mussolini…nomi che sarebbero stati sostituiti da altri, in un circolo senza fine.

La donna ormai anziana con un abito rosso ormai inappropriato – tornò a scrivere il ragazzo – sapeva bene di essere al passo d’addio. Forse per questo aveva scelto quell’albergo anonimo, un po’fuori mano, su una delle grandi “Route” americane. 

“Siamo oggetti che traballano su una mensola instabile”, diceva ultimamente con inquietudine al marito perennemente distratto.

Si chiamava Virginia. Ma preferiva farsi chiamare Lady Sutton. Bisognava pure marcare la differenza dalla sporca plebe. Era nata a Londra, ma ricordava poco del suo Paese.

Suo padre aveva fatto fortuna negli Stati Uniti, con il petrolio.
“Fino a quando ci sarà  una testa su cui mettere un cappello, ci sarà speranza”, pensò intanto Lady Sutton, stolidamente, con un lampo di ottimismo che si manifestò nella sua, di testa, dove i cattivi pensieri di solito vorticavano imperiosi.

Già, i cappelli. Nel suo mondo erano stati sempre importanti. Come i guanti da indossare prima di sedersi a tavola. Erano queste le piccole cose che facevano la differenza con le donnacce che aveva sempre frequentato suo marito, il distinto uomo che si trova accanto a lei, in piedi, rivolto in avanti con un sorriso lievemente ammiccante, con un soprabito di buona fattura drappeggiato sul suo braccio destro, quell’essere inutile del quale tuttavia, ora, alla fine della sua vita, non poteva fare a meno. Come una vecchia abitudine. La vita finisce prima per una milady e bisogna aggrapparsi a quel poco che si possiede, ripeteva sempre Virginia alle sue amiche appassite e lasciate dai mariti. E la fortuna di Lady Sutton era la mancanza di coraggio di suo marito Edward. Per questo era sempre stata certa della solidità del suo matrimonio. Forse non era nemmeno mancanza di coraggio, si trattava di lealtà. La cieca gratitudine di un uomo che era ben consapevole che lei lo aveva tirato fuori dai guai nell’ora più buia. Anche se, nel profondo del suo cuore, quel pozzo nero pieno di torbidi segreti e  pensieri indicibili, non era passato un giorno senza augurarle una dipartita prematura. Entrambi erano consapevoli di essersi aggrappati l’uno all’altra per sistemare le proprie faccende private.

“Sono stata io a farti diventare l’uomo che sei!”, gli rinfacciava Virginia di continuo per legarlo ancora di più a sé, come un servo, come uno schiavo, facendo leva sulla propria superiorità culturale, sul retaggio della sua famiglia. Lui che non conosceva neppure il modo di annodarsi con classe una cravatta e beveva ancora Cherry! L’insulso Edward che senza di lei, avrebbe gettato alle  ortiche una laurea in medicina. Per un po’ era stato stati quasi felici. Poi, la guerra…

Era tornato così cambiato dall’Europa. Sembrava  di nuovo il giovane dottore tormentato, di belle speranze, che si manteneva con i soldi gentilmente concessi da ricche donne annoiate e che, una volta, l’aveva soccorsa e le aveva salvato la vita dopo un tentativo, non troppo convinto, di suicidio. Ma non c’era solo il cambiamento d’umore. Una volta rientrato dall’Europa, aveva appreso quasi con sollievo Virginia, la mano di Edward aveva preso a tremargli al punto tale da costringerlo ad appendere per sempre al chiodo il camice e occuparsi finalmente degli affari di famiglia!

O almeno, così credeva Virginia in quei giorni convulsi.
Guardò l’uomo che le era stato accanto per tutta la vita.Sospirò.

Lui l’aveva vista davvero la guerra, sapeva che cosa accadeva al fronte…. si sorprese a pensare cercando di allontanare i suoi timori.

Si sentiva in colpa. Gli aveva sempre rinfacciato l’unico atto eroico della sua vuota esistenza. Aveva deciso di servire la patria abbandonando lei, sua moglie, per andare in guerra.  Non glielo aveva mai perdonato. Quel gesto, invece, adesso poteva tornare utile. Avrebbero potuto capire meglio ciò che sarebbe avvenuto.  Per questo adesso, per la prima volta nella loro comune vita, il parere di Edward contava qualcosa.

“Fino a quando l’America non verrà direttamente colpita, i nostri ragazzi sono al sicuro. Perché vogliamo rovinarci la colazione con questi argomenti disturbanti, Virginia? Non basta questa tempesta solare a tenere impegnate le nostre menti?!”.

Edward aveva deciso di riprendere a mentire.

Per il bene di sua moglie.

Per il bene di entrambi.

Questa era una guerra che lui non comprendeva. Non conosceva il futuro e di certo non lo avrebbe sfidato un ‘altra volta.

Era inutile. Il banco, vince sempre, lo aveva imparato a sua spese.
Proprio come ai tempi di Daisy.

Daisy. Quel nome gli procurava dolore ancora adesso.

Edward andò indietro con la memoria: a quando correva lungo una linea di fuoco per dare le comunicazioni al suo generale, per salvare vite umane, sentendo di fare qualcosa di grande per l’umanità, di essere vicino al riscatto della sua dignità dopo che per anni aveva giocato al ruolo del “Principe Consorte”, e mentre sfiorava i proiettili e le schegge delle bombe, nella mente aveva solo lei. Daisy.

Lei aveva risvegliato la parte migliore del suo essere, ricordandogli  il giuramento  che  doveva onorare, che salvare gli ultimi significava salvare prima di tutti se stessi. Daisy faceva l’infermiera. Era più giovane di diversi anni, ma era di gran lunga più matura e coraggiosa di lui.L’avrebbe sposata per davvero al termine del conflitto, dopo aver parlato con Virginia e aver ottenuto il divorzio. Non sarebbe stato facile, ma ci sarebbe riuscito. Poi, la Spagnola, così  l’avevano chiamata la grande epidemia, aveva deciso per loro.

In fondo, non tutte le storie finivano bene. E la scienza non risolveva sempre gli affanni del mondo. Edward sapeva che certi fuochi brillano una sola volta nella vita e che amare richiedeva un prezzo troppo alto.Virginia non aveva mai saputo. Lui aveva ripreso a bere, proprio come al tempo in cui aveva conosciuto lei, la megera con cui condivideva un letto freddo e tre figli privi di slancio. L’altezzosa Lady Sutton, al centro di uno scandalo che andava a tutti i costi nascosto.

Edward guardava le gambe della giovane seduta davanti a lui che restava in piedi, nella hall di quel maledetto albergo, ma non le vedeva. Ripercorreva invece i passi della sua vita. Una vita che ormai odiava.
Aveva incontrato Virginia ed aveva pensato: sono al posto giusto, nel momento giusto.Il futuro suocero era stato chiaro: il benessere e il prestigio sociale in cambio della rispettabilità e di una condotta apparentemente irreprensibile. Edward aveva tenuto fede al patto fino a quando aveva potuto, fino all’incontro con Daisy. Poi, la passione aveva preso il sopravvento.Non si era mai sentito in colpa, anche Virginia aveva conosciuto quella malia. In fondo, era per rimediare alla conseguenze di una sua sventatezza che si erano sposati di fretta e furia.

Lui, Edward, l’aveva sempre saputo che Michael, il primogenito dal futuro radioso, non era suo figlio. Il  matrimonio con l’algida lady Sutton non era stato altro che un contratto.Una copertura.

Eppure avevano vissuto alcune annate buone in giro per gli alberghi del Colorado dove lei sperperava disinvolte cifre  e tentava la virtù di innocenti camerieri sprovveduti e lui fingeva di essere ciò che non era,  rimuovendo quelle voci che lo bollavano come “parvenu”. Lo faceva anche sua moglie, del resto. Ma quando lui aveva perso tutta la fortuna dei Sutton in alcuni investimenti sbagliati poco prima della crisi del ‘29, lei aveva trasformato la vita di entrambi in un inferno.Si erano trasferiti in una casa borghese, molto più dimessa e senza domestici, a New  York, e lui aveva rimesso il camice di dottore. E pian piano, erano ripartiti. Ma quel mondo di cristalli, raffinata crinolina, nuvole di fumo e ruggenti sogni era finito per sempre, anche se loro continuavano a portare avanti la messinscena, senza rendersi conto che i loro vestiti e i loro modi affettati erano adesso ridicoli, non volendosi arrendere al Divenire, continuando a danzare negli alberghi del Colorado, che facevano rivivere in qualche regione remota del loro cuore, sulle ceneri di un impero perduto per sempre.  

“Perché continui a stare con me, se mi detesti tanto?” le aveva chiesto una volta, al termine dell’ennesima discussione. Virginia lo aveva guardato, senza riuscire a trovare una valida risposta.
Edward era andato via sbattendo la porta e  si era sentito libero per lo spazio di una notte, ben sapendo che con le prime luci dell’alba tutto sarebbe tornato come prima, perché nulla a questo mondo cambia davvero.

Avevano ripreso la loro vita, nel rispetto di tutte le convenzioni per non vivere al di fuori di quella società che in fin dei conti detestavano e senza la quale, pur tuttavia, erano niente. Eppure qualcosa stava scricchiolando in quel meccanismo perfetto. Questa era una guerra che Edward non comprendeva del tutto. Dall’ Europa arrivavano notizie confuse, vaghe…

Hitler, Mussolini, erano solo nomi. Rovesciati loro, ne sarebbero venuti altri, rifletteva con sconforto.  E per un istante, il suo pensiero si confuse senza saperlo con quello del ragazzo. Succedono cose strane negli alberghi… E lui avvertiva uno strano presentimento funesto, senza comprenderne il perché.

Allora meglio pensare al tempo, alle nature morte dei quadri che sua moglie comprava senza convinzione, ai vicini di casa, a programmare vacanze che nessuno intendeva fare davvero e  a rinchiudersi in alberghi della provincia dove le ore sembravano non scorrere mai, nel tepore dorato di un’attesa senza fine.

Proprio come stava accadendo lì, in quel maledetto albergo, nella hall, dove quel giovane squinternato continuava a scrivere su un quaderno sgualcito e quella ragazza leggeva una rivista senza apparente interesse con tutta la noia del mondo appesa in un ricciolo che lei tormentava con le dita della mano sinistra.


“Forse la felicità è davvero questa attesa e noi non ce ne siamo neppure accorti. Hurrà, siamo infine liberi…”, sussurrò sottovoce, con sgomento, Edward, sorprendendosi del suono della sua voce e di quella verità che si ripeteva ogni volta per darsi coraggio.

Ed era per questo che viaggiava di continuo con la moglie, ora che i ragazzi erano grandi ed avevano preso la loro strada. Ecco perché, pensava, con un pizzico di compiacimento, lui non l’aveva ancora ammazzata, quella stupida carogna!

Ma queste, al cospetto della ragazza che leggeva svogliatamente un libro nella hall, erano solo storie di ragionevole infelicità nel marrone dorato di un settembre che sembrava non tramontare mai. 

Sbuffando con compostezza, la bella signorina allontanò la ciocca di capelli dal volto pallido. Non avrebbe dovuto più usare quella tinta di capelli, non le donava affatto, disse a sé stessa mentre cambiava pagina, e si rammaricava di aver rinunciato, per  il momento, a quel ramato che ricordava i sentieri di Highgate al crepuscolo.
“Hai fatto ciò che dovevi, ragazza”. Si rimproverò, con indulgenza, mentre coglieva lo sguardo di quell’uomo di mezza età che sembrava sbirciarle le gambe senza veramente vederle. La ragazza ebbe un piccolo sussulto. Più nella sua anima che nel suo corpo. Non poteva cedere a quei pensieri, non poteva cedere alla vanità. Era una professionista. Sapeva bene che, se pur bella, doveva sembrare anonima. Niente rosso ramato. Meglio un biondo scialbo. Così sarebbe passata inosservata nel portare al termine la sua missione.Avrebbe dovuto uccidere.

Per il suo governo.

Per i soldi.

Forse per la vendetta.

Il motivo apparteneva ad un ‘altra narrazione.

La ragazza rivolse uno sguardo innocente alla coppia nella hall e sorrise. Non era ancora il momento. C’era quel deficiente di ragazzo, lì alla reception. Quello che scriveva sempre su un quaderno sgualcito pensando che avrebbe potuto diventare scrittore. Un sogno che si sarebbe consumato come le pagine che scriveva.

Avrebbe aspettato. Aveva pazienza. Era una dote che aveva avuto fin da bambina. L’importante, era ammazzare quei due.

E nell’ombra di quelle vite incerte, pensò la falsa bionda mentre giocherellava col ricciolo che le finiva sul naso, quell’idiota dietro il banco della reception era solo una complicazione, un ostacolo che rendeva più esaltante la caccia, un personaggio messo lì a caso, in attesa che anche la sua storia trovasse compimento.

In fondo, si disse con un sorriso malizioso l’assassina, siamo tutti oggetti traballanti messi alla rinfusa sul bancone della reception di un albergo di provincia.

Eleonora Belfiore

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Laureata in Conservazione dei Beni Culturali e in Storia, sono giornalista pubblicista dal 2012. Ho da sempre una passione smodata per l'arte, la letteratura, i fumetti, il Sol Levante e per i voli pindarici. Mi definisco una sognatrice razionale.