La lettrice infingarda

Le rose di Luis Sepúlveda e l’intervista (in)compiuta

La recensione della lettrice infingarda

Inauguriamo questo spazio letterario, ‘‘La lettrice infingardaʼʼ, con la recensione di un bel libro del compianto Luis Sepúlveda.

Le rose di Atacama

Le rose di Atacama sono il simbolo scelto dal grande Luis Sepúlveda per parlare della forza di resistere agli eventi più spiacevoli. Queste rose fioriscono nel deserto, al confine tra Cile e Perù. Rappresentano un fenomeno unico, quasi mistico. Vivono un solo giorno. Un evento eccezionale, la cui portata – madida di aspettative – echeggia per gli altri 364 giorni e colora di speranza lo scenario più brullo. Le rose di Atacama sono un messaggio di vita. Oltre la morte, oltre lʼeffimero. Luis Sepúlveda racconta di averle ammirate con un suo amico, ucciso brutalmente qualche anno dopo, durante lʼefferato golpe in Cile. Il titolo originale, Historias Marginales, esalta bene il mood del libro. Al centro di questi racconti personaggi comuni, e per questo straordinari, che attraverso le loro umanissime azioni danno luogo a mirabolanti forme di resistenza contro il Male. In tutte le sue manifestazioni. Le rose di Atacama celebrano, inoltre, il coraggio delle donne, quello che viene descritto, ad esempio, nel racconto che più mi è piaciuto della raccolta: “La bruna e la bionda”, omaggio a due eroine moderne, Carmen Yáñez  e Marcia Scantlebury. Donne che dissero no al regime di Pinochet. A caro prezzo. Come accadeva a tante in quegli anni feroci. Dunque, un tributo – il racconto- alla capacità squisitamente femminile, di sopravvivere a tutto, persino all’ umiliazione, alla barbarie, più grande. Luis Sepúlveda sì che le amava davvero, le donne!

Il seguente è uno dei passaggi più emblematici del racconto, che da solo vale il prezzo dellʼacquisto del libro: ‘‘La bruna e la bionda. Carmen e Marcia. Eccole lì con il loro passo sicuro e l’orgoglio di chi ha rischiato tutto. Quei corpi che parlano d’amore conservano l’amore di tutti i caduti. Quelle labbra che invitano al bacio si sono lamentate, ma non hanno detto neppure un nome di persona, d’albero, di fiume, di montagna, di bosco, di fiore, di strada. Non hanno detto nulla che servisse a orientare i boia. E quegli occhi che si inondano di luce e illuminano hanno pianto degnamente i nostri morti. Fanciulle in fiore e in minigonna degli anni settanta, ribelli nelle aule e nei costumi, sovversive dell’amore e delle idee, compagne nell’anima e nella speranza, con quanto orgoglio le contemplo, le mie eterne ragazze!ʼʼ.

La kokeshi letterata

Mi piace Luis Sepúlveda, è uno scrittore che metteva in conto anche il fallimento e ne contemplava la sua carica paradossalmente rigenerativa. Infatti, una volta ha scritto: ‘‘Quando vivi intensamente, capisci presto che la cosa più facile, più normale, è il fallimento. Però solo dai fallimenti ricavi una lezione. La nostra generazione è segnata dai fallimenti. Eppure si potrebbe dire che si procede di sconfitta in sconfitta fino alla vittoria finaleʼʼ.

Perché, fra i tanti capolavori dello scrittore cileno ho scelto di parlare di questo libro?

Per numerosi motivi. Innanzitutto, volevo inaugurare la rubrica con un autore a me caro, realizzando un tributo personale e sentito, a cinque mesi dalla sua morte. Che strana cosa è la memoria, nei suoi giardini il tempo si dilata, si allunga, perde il suo significato. Sono già passati cinque mesi dalla morte di Luis Sepúlveda . Era il 16 aprile. Quando ho appreso che questo dannato virus – capace di mettere ancora di più in discussione le nostre vite precarie – aveva portato via anche lui, dʼistinto, sono corsa in camera mia e ho preso, dallo scaffale della mia caotica libreria, la copia del libro. Ho iniziato a sfogliare le sue pagine, come se fosse la prima volta. E in qualche modo, ad un tratto, mi sono ritrovata nel 2001. Anche allora era un giorno di primavera. Sì, in un certo senso,  posso dire di averlo conosciuto…

Un incontro letterario

***

ʻʻLe piace Napoli?ʼʼʼ

La domanda più scontata. Quella più difficile, a suo modo. Lʼinterrogativo che ha dato lʼavvio allʼintervista del cuore, quella che non ho mai messo nero su bianco. La vita è fatta di incontri casuali, di splendidi imprevisti capaci, se non di cambiare per sempre il corso di unʼesistenza, di renderla sicuramente migliore, di istanti fugaci che meritano di essere vissuti. Era il 2001 quando ho avuto la fortuna di conoscerti.  Il liceo che frequentavo, fra gioie e piccoli dolori adolescenziali, lʼ ʻʻAntonio Genovesiʼʼ, nella splendida Piazza del Gesù, aveva organizzato un incontro letterario con te, il grande scrittore cileno apprezzato in tutto il mondo, che si trovava in Italia per un tour editoriale e non solo. Le tue conferenze non si limitavano mai alle disquisizioni sui mondi di carta, ma abbracciavano la complessità della vita, nella sua magnifica e perturbante unicità. Ti conoscevo già. Eri uno dei miei scrittori preferiti. Parlavi, nei tuoi libri, di eroi imperfetti e di donne caparbie e coraggiose, dellʼ impegno ecologista e del grande valore della diversità. Quel giorno di primavera, eravamo in tanti nellʼ Aula Magna, in preda ad una sorta di euforia collettiva. Avevo un sacco di domande da fare. Furono soprattutto i tuoi intensi occhi neri, intelligentissimi, a colpirmi. Era bello ascoltarti.

Al termine del tuo intervento, mandai una mia amica a chiedere lʼautografo, quello che adesso, per ironia del destino (sempre lui, cinico e baro!), non riesco più a trovare ma che confido di recuperare in quel caos domestico in cui si rispecchia anche la mia vita, per fortuna o purtroppo. Poi, sospinta da uno slancio eroico, presi coraggio. Perché avevo un sogno, sin da bambina. Diventare una giornalista. Non la migliore, non la più brava, ma quella capace di raccontare storie, volti, la vita vera, e di stare sempre sul pezzo. Ti fermai, ti feci i doverosi complimenti e ti dissi ciò che avevo amato di più delle tue opere. E poi mi venne unʼidea, in un altro eroico furore dal sapore pindarico. Quella di intervistarti. Non per il giornalino della scuola, non per la gloria, ma unicamente per godere di quegli istanti preziosi, di trascrivere quellʼesperienza nel mio diario, di conservare quella testimonianza, gelosamente custodita, negli anni a venire, nelle mie memorie private. Quelle di una ragazzina troppo timida, che si sentiva sempre fuori posto. E così, iniziai proprio da quella domanda apparentemente banale e in grado, invece, di svelare un universo…

ʻʻLe piace Napoli?ʼʼʼ.

ʻʻHo un rapporto speciale con il vostro Paese. Napoli è tra le mie città preferiteʼʼ. Insistesti perché ti dessi del tu. Lo feci senza pensarci troppo. 

 ʻʻE che impressione hai dei napoletani? Troppo spesso ci dipingono come brutti, sporchi e cattivi…ʼʼ.

ʻʻSono solo stupidi pregiudizi. Ho una magnifica impressione. I napoletani hanno talento, la magnifica abilità di rinascere ogni volta, di trasformare tutto in arte. Persino una pasta e patate ʼʼ.

ʻʻChe ricordo porterai nel cuore? ʼʼ

ʻʻQuello della vostra capacità di mettere a proprio agio chiunque. Qui da voi nessuno si sente straniero. E poi, il vostro amore per la convivialità. Mi piacerebbe portarvi tutti in qualche trattoria e discutere ancora di letteratura, di politica e di ambienteʼʼ.

Allora mi venne in mente, dietro suggerimento dei professori, di invitarti, a nome di tutti, davvero a mangiare una pizza. Ma non ci fu il tempo. Ti richiamarono allʼordine. Avevi altre conferenze. Dovevi andare.

Ma non ho mai dimenticato quell’incontro, quell’intervista che non ha mai preso forma compiuta.

Lo faccio adesso, che non ci sei più. Perché è stato un onore conoscerti e perché, con poche parole cariche di amore e di umanità, hai colto lʼessenza di questa città. La mia. Di tutti.

Dovunque tu sia, grazie per aver condiviso con noi un pezzetto della tua strada.

di Eleonora Belfiore

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Laureata in Conservazione dei Beni Culturali e in Storia, sono giornalista pubblicista dal 2012. Ho da sempre una passione smodata per l'arte, la letteratura, i fumetti, il Sol Levante e per i voli pindarici. Mi definisco una sognatrice razionale.