Arte - Il caleidoscopio,  La mela di Grimilde - L'angolo della Ele

J’accuse! L’invettiva irriverente di una storica dell’Arte

La mela di Grimilde

di Eleonora Belfiore

A poche settimane dallʼinizio del nuovo anno scolastico, che di certo si preannuncia difficile a causa dellʼemergenza sanitaria, aggravata dai comportamenti irresponsabili e inopportuni di tante persone convinte che la pandemia sia solo una leggenda metropolitana (ancora?!), ritorna preponderante il mio personale quesito da un milione di dollari. In un mondo sempre più rozzo, ha ancora senso insegnare la Storia dell’Arte? E la risposta può essere una sola: ora più che mai. Già, se non adesso, quando?

Perché insegnare la Storia dell’Arte?, è la domanda provocatoria che pose ai lettori, in un memorabile saggio, il grande Cesare De Seta.  La stessa che tormenta i tanti docenti, precari compresi, e cultori della materia che, negli ultimi anni, si sono visti dimezzare le ore dedicate a questa fondamentale disciplina (in un Paese che detiene la maggior parte dei Beni Culturali del mondo?! Perbacco, un paradosso contemporaneo!)  Povera Storia dell’Arte!

Le nuove regole della globalizzazione, del turismo mordi e fuggi alla portata di tutti ( lo è davvero?), della mercificazione estrema,  hanno letteralmente svuotato di dignità e di autonomia la Storia dell’Arte.  Dalla riforma Gelmini – che ha tagliato le ore di una delle più importanti e istruttive discipline scolastiche – alla battutaccia di un certo Alberto Bonisoli che un po’ di tempo fa affermava di volerla abolire definitivamente, perché per lui era stato addirittura penoso studiarla in gioventù (Michelangelo, perdonali… non sanno quello che dicono! Sob!), è stato un susseguirsi di scelte sciagurate e insensate. Ora, i lavoratori di questo settore e in particolar modo i docenti, e aspiranti tali, chiedono un maggior peso e rispetto. Per farlo, occorre riscoprire la Bellezza e il valore della Storia dell’Arte. Eppure, non dovrebbe essere così difficile capire quanto sia strategico per il nostro Paese, per l’Europa, questo insegnamento. Anche dal punto di vista “economico”.

  La Storia dell’Arte mostra i cambiamenti occorsi nella società, riflette le vicende degli uomini in maniera esemplare e immediata. Si svela per ciò che è, per ciò che siamo (diventati). Senza pregiudizi.  E il tema della bellezza – andando dunque persino oltre gli ideali confini “geografici” della disciplina – è indissolubilmente legato a quello della vista, dello sguardo, che ci definisce e ci condanna, attorno al quale si gioca forse la partita decisiva della nostra vita e di quella degli altri. Perché non siamo quasi mai chi vediamo allo specchio, più di sovente diventiamo il mostro o il dio che abita nello sguardo altrui, e ciò è all’origine di molte tragedie e delle più mirabolanti rinascite.
Un esempio è dato dalla rappresentazione del corpo, al suo uso e abuso, allʼevoluzione (o involuzione) che ha subito nel corso dei secoli e che lʼArte ci restituisce. Nell’antica Grecia l’armonia della figura è data dall’equilibrio perfetto di corpo e mente. Nella perfezione estetica dell’atleta si riflette anche il benessere della mente. Il cristianesimo ha proposto un interessante ribaltamento, prediligendo la dimensione interiore a scapito di quella esteriore. Emerge, dunque, una dimensione etica della beltà che giustifica e sublima, ad esempio, la sofferenza.

Pensiamo alla ricorrente figura del Cristo sofferente o alle innumerevoli scene di martirio proposte dagli artisti nel corso dei secoli. O ancora, al contrasto stridente che rende unico il “Mausoleo di Galla Placidia”, a Ravenna.
Alla semplicità sgraziata e quasi parossistica dell’esterno non corrisponde invece lo splendore, la raffinatezza e l’eleganza degli ambienti interni, metafora volutamente eccessiva di una bellezza che deve risiedere solo nell’anima, la parte di noi che non muore mai e che ci permetterà di assurgere alla vita che verrà. Un feroce monito contro quella vanità deleteria del mondo esterno di cui parlerà, secoli dopo, Filippo Neri.
Dopo la parentesi medievale, il Rinascimento riporta in auge gli ideali classici di bellezza e armonia, dando più slancio alla carnalità, sebbene in un contesto ancora sublimato (la Venere di Botticelli, per citare un’opera emblematica). Dobbiamo attendere i fasti del barocco per assistere al trionfo dell’opulenza quale simbolo di benessere economico e fisico, come propone la lezione di Rubens. Il ‘700 sarà invece il secolo della mondanità, dei pizzi e delle crinoline, delle parrucche e dei belletti, esaltati nella loro baldanzosità da artisti come Elisabeth Vigée Le Brun, attiva alla corte della sventurata e frivola Maria Antonietta, un’arroganza a tratti lugubre, triste presagio della morte (e del fallimento) del secolo che, rischiarato dai lumi della Ragione, finisce invece nell’orrorifico bagno di sangue delle teste decapitate.


La bellezza diventa oggetto di indagine, anche naturalistica, nel corso dell’Ottocento dove inizia a delinearsi un canone più eclettico, che spazia dall’irriverenza “asettica” dei nudi di Manet alla bellezza perturbante, fiabesca, malinconica e talvolta macabra dei Preraffaeliti, le cui donne simboleggiano bene la natura inquieta e variegata dell’essere umano, in perenne bilico fra luci e ombre. Il Novecento è il secolo della de -costruzione e della ri-costruzione della bellezza che ferita, scomposta, umiliata, deturpata, imperfetta e contorta, accoglie le fratture dell’Io e le istanze drammatiche e tumultuose di Egon Schiele, di Modigliani, delle scomposizione cubiste di Picasso, che sembra fare a pezzi il corpo delle graziose signorine di Avignone, in attesa, “sul bordo dell’acqua”, di una fine già nota. Sarà poi la volta dei corpi riprodotti in serie, de-mitizzanti e gettati in pasto quasi come oggetti smarriti ad un pubblico sempre più feroce, anestetizzato e patologicamente voyeuristico, fino al trionfo (sottovalutato) della ritrovata gioia di vivere dei corpi ammalianti di Jack Vettriano e di quelli allegri e spensierati, completamente liberi, di Fernando Botero (due aspetti della stessa medaglia, due artisti solo apparentemente distanti dal punto di vista estetico).

Ecco, basterebbe solo questo per mettere a tacere i “non addetti ai lavori” (volendo essere gentili e non apostrofarli in altro modo), gli amanti di un  mondo vuoto, brullo, vanesio e iper-tecnologico, che ha messo a tacere quella voce interiore che ci ricorda – ogni giorno, saggiamente – che dobbiamo morire- e per questo abbiamo il diritto-dovere di rendere epico il tempo che ci è stato concesso. Per seguire un edonismo bulimico, questi figuri -ivi descritti – si sono invece già arresi alla Morte e sono entrati a far parte di un esercito di zombie, che tenta di sovrastarci!

Le immagini estetiche ci offrono una chiave di lettura archetipica del nostro Io, e ci restituiscono, al contempo, la fotografia di una determinata società. La Storia dell’Arte ha tracciato una rotta che, da Lascaux , guida ancora il nostro cammino, malgrado lʼincedere della lunga notte nordica, e ci proietta verso il futuro. Ed è soltanto così che continuiamo a mettere sotto scacco il Tempo e il nostro epilogo. Un memento di struggente attualità in questi tempi dalla memoria corta.

Ricordate tutto questo, Ministri e manager!

LʼArte non vi (s)vende e non si piega. Resiste. Si rinnova. Come un’araba fenice.

Vive!


In copertina: Particolare della Nascita di Venere di Sandro Botticelli. Immagine di pubblico dominio presa da: https://it.wikipedia.org/wiki/Nascita_di_Venere

https://it.wikipedia.org/wiki/Nascita_di_Venere#/media/File:Strabismo_di_Venere_-_Botticelli.jpg

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Laureata in Conservazione dei Beni Culturali e in Storia, sono giornalista pubblicista dal 2012. Ho da sempre una passione smodata per l'arte, la letteratura, i fumetti, il Sol Levante e per i voli pindarici. Mi definisco una sognatrice razionale.