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Contro la violenza di genere, nel segno di un nuovo Rosso

Per dire no

ʻʻE come eri vestita?ʼʼ

ʻʻNel video in rete sembravi piuttosto partecipe…ʼ ʼ

ʻʻTe lo sei cercata…ʼ ʼ

ʻʻSei una poco di buonoʼ ʼ.

ʻʻLei camminava da sola, di notte. Non le sembra un comportamento quantomeno imprudente?ʼʼ

ʻʻHa bevuto un po’ troppo, ci hanno detto i testimoni. Poi ha iniziato a ballare al centro della pista in modo ammiccante… E’ proprio sicura che quello che è avvenuto dopo, non sia stato consenziente?ʼʼ

ʻʻAndiamo, era solo uno sfottò!ʼʼ

ʻʻNon pensi che sia stata anche colpa tua? In fondo, lo hai scritto in fronte che sei diversa…ʼʼ

Cʼè un filo rosso, alimentato dal pregiudizio e dallʼ ignavia, che accomuna tutte coloro che vivono sulla propria pelle, la violenza, che sia fisica o psicologica, che riguardi la sfera della cosiddetta violenza di genere o quella più ampia – ma non meno insidiosa – del bullismo, il risultato non cambia.

In qualche modo, la vittima è colpevole, abbandonata al proprio destino.

Un ribaltamento vergognoso, che cambia per sempre il corso di unʼesistenza.

Per questo, malgrado sia importante, la denuncia da sola non basta. Specialmente se non si interviene prima sul vuoto legislativo in materia, che permette sentenze indulgenti o addirittura contraddittorie, se non si pongono – dunque – le basi per un cambiamento radicale normativo, in primis, e poi nella nostra mentalità. E per farlo, occorre una buona dose di coraggio e forse persino un pizzico di incoscienza propositiva. E chi, più di una donna, sa cosa sia il coraggio…

Purtroppo, per ragioni legate ad una certa, inossidabile, rivalità cieca e insensata, quello che manca alla vittima della violenza di genere è proprio la rete solidale delle altre donne, che si voltano dall’altra parte per quieto vivere o addirittura diventano i primi implacabili giudici, un modo perverso per mettere forse a tacere le proprie insicurezze nei confronti dellʼaltra, di quella che viene atavicamente e antropologicamente percepita come la propria avversaria. Chissà perché…

E allora, la vittima si sente ancora di più smarrita, confusa, abbandonata e tradita. Proprio da chi, più di tutti, doveva capirla e sostenerla. É tempo di dire basta. Di violenza si muore. Nel corpo e nellʼanimo.  

Oggi, non è un giorno qualunque e al contempo, purtroppo, lo è. Perché quel mostro antropomorfo che pretende di avere potere di vita e di morte sulle donne, continua a mietere vittime.

Il 25 novembre, ricorre la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, istituita il 17 dicembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Una data non casuale che si prefiggeva come obiettivo quello di non dimenticare la drammatica esecuzione delle sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana, uccise il 25 novembre 1960.

Ma oggi, come allora, le donne continuano a essere offese, umiliate, brutalizzate e uccise. E così, non sembrano lontani i tempi di Maria D’Avalos, la splendida nobildonna napoletana orribilmente ammazzata, nell’ autunno del 1590, nella propria dimora, insieme al suo amante, Fabrizio Carafa, in una delle stanze del Palazzo San Severo, a piazza San Domenico Maggiore. Anche Maria venne uccisa da un marito possessivo e crudele, Carlo Gesualdo, Principe di Venosa.

Non pago di quel sangue, il principe ordinò poi di esibire i loro corpi nudi, il mattino seguente, sulle scalinate del palazzo, sotto gli occhi dell’intera popolazione. Secondo le cronache coeve, il cadavere della bella Maria venne esposto non solo al pubblico ludibrio ma anche all’ultimo ignobile atto, lʼabuso sacrilego di un corpo senza vita.

ʻʻNe reminiscaris Domine delicta nostra!ʼʼ (Non ricordarti, Signore, dei nostri peccati), scriverà Gesualdo in uno dei suoi motteti, quasi a voler allontanare, dalla mente, la colpa per quel crimine efferato, per chiedere pietà a quel Dio contro i cui principi era andato così spesso nella sua travagliata esistenza, caratterizzata da eccessi di ogni tipo. Ma nella vita che verrà, le colpe, a giudizio di chi scrive, non si alleviano a peso di titoli, retaggi o soldi e di questo il Principe, che stupido non era, doveva avere chiara cognizione…

Poco più di vent’anni, a Roma, unʼaltra donna subì la gogna pubblica, con un esito – questa volta- più sorprendente. Stiamo parlando di Artemisia Gentileschi.  Figlia di Orazio, figura centrale nella storia della pittura dei primi anni del Seicento, venne istruita dal padre nell’arte del dipingere e fu proprio nella bottega di famiglia, che, ancora giovanissima, subì una violenza carnale da parte di Agostino Tassi, collaboratore di Orazio. che poté contare sul silenzio complice di una domestica di Artemisia. Il reato è ampiamente documentato dalle testimonianze raccolte durante il processo, iniziato nel marzo 1612 e durato sette mesi. La difesa insinuò una precedente promiscuità della donna, accusa che Artemisia respinse con veemenza. Oltre alla visita ginecologica da parte di un’ostetrica, l’artista fu sottoposta alla «tortura della Sibilla», che provocava un doloroso stritolamento delle mani.

Il processo si concluse con la condanna del Tassi a cinque anni di esilio. Artemisia dipinse un quadro dal fortissimo impatto drammatico, “Giuditta e Oloferne”, che rientra nell’elenco delle opere più prestigiose conservate nella famosa Pinacoteca del Museo di Capodimonte. Si tratta di una composizione di grande compattezza, la violenza ed il dolore si evidenziano nel forte contrasto fra il sangue e il candore del lenzuolo. Artemisia ha voluto dare alla bella Giuditta il proprio volto. Nonostante questa scabrosa vicenda, ebbe un eccezionale riconoscimento in campo artistico e fu la prima donna ad essere ammessa all’ ʻʻAccademia dell’arte del disegno” di Firenze. Ma quell’oltraggio non venne mai dimenticato e fu una cicatrice con cui la pittrice dovette convivere per tutta la vita.

 Storie dei tempi antichi, si direbbe. Invece, proprio oggi ci giunge voce di altri due femminicidi, che dimostrano come non siamo stati in grado di recidere questo maledetto filo rosso.

Dal Cile allʼIndia, è tempo di dire basta.

La violenza mutila nel corpo e nell’anima, ferisce e uccide. Agisce come un veleno. Anche a distanza di anni. É bene ricordare che fino al 1981 il reato di violenza carnale addirittura si estingueva se la vittima accettava di sposare il suo stupratore e solo dal 1996 la violenza sessuale rientra tra i delitti contro la persona e non contro la morale. Dati indegni di un mondo civile.

La denuncia è il primo, doveroso, passo, ma non basta. Lo dobbiamo dire a gran voce. Non basta, se non si abbatte il muro di omertà e di ipocrisia della società. Dopo una violenza, di qualsiasi natura essa sia, la vittima vive un “fine pena mai” nella più spaventosa delle celle, quella che si costruisce nella sua mente e che viene alimentata dall’ingiustizia e dal marchio che il mondo esterno le imprime senza pietà. Non basta denunciare, se la legge rimette in libertà il carnefice dopo cinque, dieci, venti anni, anche meno a volte. Troppe….
Facciamo squadra contro la violenza, in qualsiasi forma essa si manifesti. Per spezzare una volta e per tutte questo filo.

Perché il Rosso torni ad essere il colore della vita, della passione e dell’amore. Quello vero.

Immagine di copertina Eleart’s Creation – Artemisia Gentileschi -Autoritratto come Allegoria della pittura

Immagine di pubblico dominio rielaborata da: https://it.wikipedia.org/wiki/Artemisia_Gentileschi  Artemisia Gentileschi – Google Cultural Institute, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=37146117

Giuditta che uccide Oloferne (Museo Nazionale di Capodimonte)

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Laureata in Conservazione dei Beni Culturali e in Storia, sono giornalista pubblicista dal 2012. Ho da sempre una passione smodata per l'arte, la letteratura, i fumetti, il Sol Levante e per i voli pindarici. Mi definisco una sognatrice razionale.