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Addio a Diego Armando Maradona

Oltre la vita, la leggenda

Che cos’è il mito?

Qualcosa che non si definisce, che non accetta schemi precostituiti, che vola sul mormorìo cattivo della gente, che vorrebbe imitarlo e poi schiacciarlo.

È Genio. Muta forma, evolve, eppure si insinua profondamente nelle viscere della società e trae nutrimento da essa, assorbendone anche i veleni. Contempla, nella sua parabola fulminea, rinascite e terribili cadute. Fino all’epilogo cruento e prematuro, quasi inevitabile, verrebbe da dire.

Come se quello fosse il prezzo da pagare per la gloria immortale.

Diego Armando Maradona era tutto questo. È tutto questo. Perché, oggi, finita la storia umana, comincia la leggenda.

Maradona è l’anima stessa di Napoli, smargiassa e generosa, che nasconde bene, tra le pieghe della sua allegria trascinante, un pizzico di malinconia. La vitalità dirompente è un modo intelligente per dimenticare le inevitabili “sottrazioni” che caratterizzano il corso umano. Anche quello più felice.

C’è un’atmosfera strana in città. Il 26 novembre, dell’infausto anno 2020, qualcosa è cambiato. Napoli si è svegliata smarrita, confusa. Con uno sgomento simile a quello che abbiamo provato quando, in un giorno come tanti, guardandoci allo specchio, ci siamo resi conto di essere diventati adulti.

La cognizione vera della perdita arriverà dopo. Il dolore non è mai lineare, non segue una rotta predeterminata, è più simile ad un’onda che ti travolge all’improvviso. E allora, nei prossimi giorni, ascoltando una canzone di Pino Daniele, passeggiando per le vie del centro storico, ci ritroveremo tristi senza un perché. E poi, ricorderemo. Diego è morto.

In seguito, quel dolore diventerà un dispiacere, a tratti persino dolce, trasognante. E la vita proseguirà come sempre avviene e come sempre è avvenuto sotto quel cielo stellato a cui volgiamo lo sguardo di tanto in tanto, in cerca di risposte, ma che resta insondabile.

La morte di Diego ci ha toccato profondamente. Anche chi non è un patito del calcio non può fare a meno di avvertire dentro di sé la consapevolezza della fine di un capitolo unico della nostra vita.

Nessuno come lui. Diego.

Come Elvis, come Marilyn. Come tutti i grandi. I miti, per l’appunto. Persone diverse per cultura e per sensibilità, accomunate, tuttavia, da una lotta costante contro un passato ostile, che pare voler determinare a tutti i costi il futuro, fino a ottenere, alfine, la propria crudele vittoria. Perché al destino davvero non si sfugge.

Gli abusi e gli abbandoni nel caso di Norma Jeane, il confronto con il padre padrone in quello di Marvin Gaye, con la società bigotta per Janis Joplin, la povertà e la ricerca di un riscatto per Elvis e per Maradona. Cambia la trama, ma resta identico il nocciolo della questione: la lotta contro il Fato, che vuole intrappolarci nel passato.

Il Genio è anche questo. Voglia di scombinare quelle carte infami.

Il ragazzo del Barrio più povero di Lanús, non lontano da Buenos Aires, è riuscito nell’impresa. E’ lo stesso calciatore a dire, in un’intervista, che qui in Europa il vero Maradona non lo abbiamo mai neppure visto. Difficile pensarlo.

Chissà, tuttavia, che cosa sarebbe potuto allora essere senza il demone della cocaina. Così, ci interroghiamo invano se la sregolatezza sia parte imprescindibile del Genio, un enigma che ci trascina in un’aporia.

I ricordi su Diego, oggi, abbondano. Il calciatore argentino amava profondamente Napoli. Nelle sue parole, c’è lo stesso incanto per la nostra inquieta e bella città, espresso da Luis Sepúlveda, qualche anno dopo . Una coincidenza…

Per me, Maradona rappresenta il periodo più bello della mia vita, l’infanzia in quegli anni Ottanta che hanno regalato spensieratezza, sogni e speranze, poi disattese, ma che all’epoca apparivano possibili.

Ricordo ancora, in quei giorni lontani del 1987, la folla in festa per lo scudetto e la paura di mia madre, in attesa di mia sorella, di non riuscire ad arrivare in tempo in ospedale, perché bloccata nel traffico.

Era di maggio, diceva una nota canzone…

Napoli era in festa, tutti celebravano con gioia l’arrivo della nostra cometa, il nostro Grande Cocomero per dirla alla maniera del compianto disegnatore Schulz, quello scudetto a lungo inseguito e conquistato a buon diritto. Non era solo per la vittoria in sé. Quello scudetto gridava al mondo: “Napoli esiste. Ci siamo anche noi”.

Era l’antica capitale, offesa e umiliata, che rialzava lo sguardo, che avanzava fiera, sebbene vestita di stracci, con una forza in più, pronta ad afferrare le opportunità, collettive e personali, di quella coppa. Era il riscatto del Sud. Di tutti i Sud del mondo, quello di Diego.

Finì bene. Per mia madre, per mia sorella, per tutti noi. Il futuro era carico di promesse realizzabili. Imparammo dopo che le fiabe sfumano sempre all’alba. Resta, invece, il valore di quell’utopia. Qualcosa si perde e qualcosa ritorna nel grande cerchio della vita.

Ma come Diego, mai più nessuno.

Il re è morto, viva il re!

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Laureata in Conservazione dei Beni Culturali e in Storia, sono giornalista pubblicista dal 2012. Ho da sempre una passione smodata per l'arte, la letteratura, i fumetti, il Sol Levante e per i voli pindarici. Mi definisco una sognatrice razionale.